Pubblicato originariamente su Il Colophon il 9 ottobre 2016.
“I gradini del palazzo di giustizia sono pieni di reporter e giornalisti che urlano quando mi vedono. Le domande sono le stesse di prima, ma questa volta ascolto e rispondo. Non mi piace come viene formulata gran parte delle domande e mi prepongo di correggerle quando rispondo: «No, non sono uno scavezzacollo, sono uno scrittore del cielo!» «No, non collego la mia impresa alla ricerca di un lavoro, non ho bisogno di nulla!». Tutto ciò che desidero descrivere è la bellezza insita nel poter vedere la città che si sveglia da tali altezze, la mia esaltazione nel raggiungere le nuvole e sorprendere il cielo”.
Toccare le nuvole è un libro pubblicato nel 2009 nella collana saggistica di TEA in cui Philippe Petit ripercorre minuziosamente l’impresa che l’ha reso famoso: tirare un cavo da una torre all’altra del WTC (o Torri Gemelle) a New York e fare il funambolo dove nessuno l’aveva fatto prima. Questo libro, più che un saggio, è una lunghissima lettera d’amore dell’autore alla città di New York, alle “sue” torri e al funambolismo. Philippe Petit scopre le torri prima di vederle fisicamente, mentre aspetta di essere ricevuto dal dottore e traccia una linea a matita che le unisce perché “quando vedo tre arance, faccio il giocoliere; quando vedo due torri, cammino!”. Inizia così una performance artistica che richiede due anni di preparazione, di studio, di prove, di controlli. Il funambolo non intende fallire, né barare (per cui non sono previsti cavi di sicurezza, sebbene nessuno da terra potrebbe vederli): il lettore scopre così quanto una camminata su uno spesso filo di acciaio sia, in realtà, un’opera d’arte. Per l’artista è un’occasione unica in cui è in gioco — letteralmente — la vita. Come in molte altre opere artistiche, la preparazione del coup è ciò che occupa più dell’ottanta per cento del libro. Prepararsi non significa solamente scegliere il cavo giusto, significa lottare con il tempo e gli imprevisti, significa cercare soluzioni a problemi che non si sapeva di avere, significa richiedere aiuto ad amici e conoscenti più o meno collaborativi. Si può definire un’opera d’arte quella traversata? Dipende dalla definizione che ci si dà di arte. Se decidiamo di seguire la definizione fornita da Wikipedia, questo libro è una meta-opera d’arte. Infatti, Wikipedia definisce arte “ogni attività umana — svolta singolarmente o collettivamente — che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza”. Attività umane creative, estetiche, ma basate sulla tecnica, sullo studio. Non il colpo di fulmine che ha avuto Petit nella sala d’aspetto del dottore, quella non è arte. Al massimo ispirazione. Tutti i tentativi falliti tra un paio di alberi, tutte le soluzioni tecniche trovate lungo il percorso, tutto l’ingegno applicato per portare a termine un’impresa in un paese lontano (Philippe Petit è un funambolo francese). Ecco tutti quegli elementi sono l’aspetto artistico, prima ancora che il racconto prendesse forma, la camminata del 7 agosto del 1974 aveva già in sé tutti gli elementi dell’opera d’arte.
Questo libro racconta, riporta, ci permette di sbirciare dietro le quinte. Ecco perché è nella sezione saggistica: pur non essendo un manuale, non è neppure un romanzo, né un’autobiografia. Come già detto, è un’opera meta-artistica: un linguaggio, una soluzione per raccontare l’opera vera e propria. Come i quadri di Lucio Fontana: l’opera non è la tela, bensì il gesto che l’ha creata. L’opera non è la scultura, ma il vuoto lasciato dal taglio. Scultura, sì, perché il procedimento di creazione dei famosi squarci è scultoreo, non pittorico: il taglio è preciso, non si modificherà nel tempo perché Fontana l’ha fissato con garze e colla nel verso. La parte invisibile è quella artistica. Il dietro le quinte. Allargando lo sguardo nel mondo dell’arte riconosciuta, quella nei musei, l’invisibile è spesso dimenticato. Tutti vogliono vedere il viso della Gioconda, non la tela su cui è dipinta. Tutti. Tranne Vik Muniz, artista e fotografo brasiliano che da anni fotografa, analizza e studia la parte nascosta dei capolavori, riproducendola successivamente in sculture estremamente precise (tranne per il piccolissimo particolare che il retro di questi “davanti” non è popolato di quadri famosi). Per concludere, qualsiasi sia il mezzo che l’artista sceglie per esprimersi, ciò che caratterizza le creazioni come arte consiste in due punti fondamentali. Il primo è la capacità di farci dimenticare il retro (i dietro le quinte di teatro e film, i piedi deformi delle ballerine, i calli dei musicisti, il lavoro certosino di scelta delle parole degli scrittori). Il secondo, forse più importante, è il fatto che l’opera d’arte porta comunque in sé tutti questi elementi invisibili. Philippe Petit, da terra, sembrerà sempre un pazzo, ma leggendone le righe, entrando come spettatori privilegiati nel team di preparazione del coup, sarà a pieno titolo sempre uno scrittore. Del cielo. Con tutta la fatica, il lavoro, le nevrosi, il perfezionismo e la poesia che questo comporta.
Immagine di copertina: Joy VanBuhler – 287/365 – Magazines – Flickr CC BY NC ND
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