un governo come piattaforma. [Tim O’Reilly] Ha preso in prestito una metafora di Don Kettl sul governo come distributore automatico (ossia dove metti i tuoi soldi e ti esce il servizio che ti serve) e ha chiesto di reimmaginare il governo come piattaforma per azioni collettive. Come risultato, gli impiegati governativi devono pensarsi meno come AOL nei giorni felici, quanto come la Apple che abilita centinaia di applicazioni di terze parti per l’iPhone. Nel modello “distributore automatico”, se i cittadini vogliono cambiare qualcosa (per così dire), tutto ciò che possiamo fare è scuotere la macchinetta. Se il governo costruisse una piattaforma che abilita la partecipazione, i cittadini potrebbero creare il cambiamento che desiderano.
L’ultima domanda era sui rapporti con la PA. La domanda era interessante e non ho risposto adeguatamente. Le Pubbliche Amministrazioni dovrebbero fare da ABILITATORI per i cittadini (i patti di partecipazione bolognesi sono un esempio, il ruolo che sta avendo la biblioteca comunale per la città di Trento è un altro esempio — ne ha parlato Eusebia Parrotto al convegno dell’AIB). Quando questo presupposto viene a mancare (un esempio classico è l’Amministrazione che attacca il cittadino che fa qualcosa con i dati), qualunque civic hacker dirà di aver avuto un’esperienza negativa con la Pubblica Amministrazione (che si vede ancora come un distributore per le merendine). Un circolo virtuoso tra cittadini e amministratori è fatto di tanti piccoli passi e richiede fiducia da entrambe le parti.
Quindi gli Amministratori non servono più a nulla?
La risposta chiara e semplice è no. Ripensare alla propria relazione con i cittadini, significa diventare elementi abilitanti per cittadini attivi e hacker civici interessati a costruire qualcosa di “pubblica utilità”. Pensiamo concretamente al Comune di Reggio Emilia e alla sua esperienza con gli Open Data. Il portale Open Data è stato realizzato grazie anche ai contributi portati dai civic hacker locali. Non è tutto! Grazie ad un percorso divulgativo sugli Open Data, è nato Fatti di numeri⁸, uno spettacolo teatrale che offre una lettura creativa e accessibile degli Open Data, rendendoli parte di un ragionamento più ampio sulla città stessa.
La PA è una piattaforma!
Le relazioni sono complesse, non ci sono mai soluzioni semplici. La tecnologia è un mezzo potente che va compreso, soprattutto nella sua natura destabilizzante: Internet mette in discussione i poteri e i ruoli di ciascuno, re-distribuendoli. Forse è ora di riprendere l’idea, nata quasi dieci anni fa negli Stati Uniti, della PA come piattaforma⁹, dove il cittadino può fare (e non soltanto partecipare) e può contribuire alla difesa dell’interesse collettivo.
Non è una fissa di chi fa o racconta il civic hacking, come dimostra Carlo Mochi Sismondi.
il ruolo dell’amministrazione pubblica è fondamentale, ma ci serve una PA nuova, non tanto nella forma o nelle norme, ma nella sostanza e nei comportamenti. Una PA fondata su un diverso ruolo rispetto al solo fornire servizi e autorizzazioni. Un ruolo che superi il paradigma bipolare e la porti ad essere piattaforma abilitante per una nuova collaborazione tra le diverse componenti della società complessa in cui viviamo.
Ma non sono sicura che questi discorsi, più teorici che pratici, possano essere davvero di ispirazione per i dipendenti pubblici: io non lavoro nel pubblico, non sono “una di loro” quindi sembrano più fumo che arrosto.
Ecco perché ho pensato di fornire un esempio concreto attraverso l’esperienza della Biblioteca comunale di Trento.
La biblioteca comunale è una PA?
Per quanto possa sembrare strano, la risposta è sì. Anche se non fa strettamente parte della dimensione amministrativa di una città, è innegabile che sia una struttura che cura gli interessi pubblici ed gestita – perlopiù – da dipendenti pubblici. Non voglio addentrarmi sulle varie classificazioni delle varie tipologie di biblioteche o delle sfumature della parola Amministrazioni, però è importante riconoscere che non tutti gli uffici pubblici sono Ministeri o Anagrafi. Ognuno ha la proprio specificità e ognuno può diventare abilitatore in qualche forma.
Ma passiamo all’esperienza raccontata da Eusebia Parrotto, capoufficio servizi al pubblico e organizzazione tecnica della Biblioteca di Trento.
Creatività e Ricerca: la biblioteca come officina per la produzione collaborativa di contenuti e servizi from AIB Video on Vimeo.
Beh, ma quella è la sua esperienza!
Eusebia, giustamente, si concentra su aspetti molto pratici del diventare “abilitatori”: parla di una biblioteca antica, che lavora anche come archivio, del capoluogo di una regione a statuto speciale. Ciononostante, non è difficile estrarre delle indicazioni generali, applicabili anche ad altre Amministrazioni.
Il (quasi) decalogo dell’Amministrazione abilitatrice
1. Sapere qual è il proprio ruolo
Creare delle relazioni con il territorio può essere difficile: ogni associazione/cittadino ha una propria visione di ciò che dovrebbe fare l’Amministrazione Pubblica e di ciò che dovrebbe essere considerato interesse comune. L’esperienza della biblioteca risolve questo nodo velocemente, mentre Eusebia parla del progetto su Cesare Battisti: “la biblioteca ha fatto quello che deve fare la biblioteca, cioè mettere a disposizione la documentazione”. Questa frase non tocca minimamente gli altri motivi per cui la biblioteca è un centro abilitante per l’Open Source e la permeabilità che la caratterizza (hanno una collaborazione fissa col CoderDojo Trento e uno sportello Linux settimanale, tra le altre cose), ma sottolinea con chiarezza l’idea che ognuno sappia quale dovrebbe essere il suo ruolo. Senza abbarbicarsi in posizioni acquisite nel tempo (pensa come sarebbe diverso tutto l’intervento se si fosse deciso che, per consultare il materiale, è obbligatorio fare la tessera o recarsi in via Roma, la sede centrale della biblioteca comunale).
2. Essere aperti alla (vera) partecipazione
Io lo capisco: introdurre nuovi partecipanti alle già complesse dinamiche pubbliche richiede energia e pazienza. Non mi permetterei mai di dire che ogni Amministrazione debba farsi in quattro per soddisfare ogni cittadino (o gruppo di cittadini). Ma che bisogna essere aperti alla collaborazione sì.
Essere aperti alla partecipazione significa coinvolgere attori diversi (nel caso dell’esperienza della biblioteca, l’associazione di wikipediani trentini, attivisti delle mappe, studiosi, esercizi commerciali e anonimi volontari). Ma come si fa? Un elemento fondamentale è FACILITARE LA PARTECIPAZIONE: più ostacoli qualcuno incrocia nel proprio cammino, più sarà tentato di cambiarlo quel cammino; non complicare inutilmente la vita di chi vuole avere accesso alle risorse, per dirla con le parole di Eusebia. Detto questo, avere chiaro il proprio ruolo reale (e non quello che i cittadini credono sia) dovrebbe permettere scambi fecondi e, forse, meno frustranti.
3. Stai davvero lavorando al meglio delle tue possibilità?
Ad un certo punto Eusebia parta di catalogazione e rimandi a Wikisource: sta raccontando come lavorare meglio. Posto che la missione di una biblioteca sia anche far accedere gli utenti alle informazioni (e, nel caso abbia anche una vocazione archivistica, conservarle per le generazioni future), riconoscere che i propri utenti non sono solo quelli che varcano la soglia fisica del palazzo è il primo passo per lavorare meglio. Senza fare voli pindarici su ipotetici utenti particolari della Biblioteca comunale, l’esperienza di cui parla Eusebia ci dice che:
- la biblioteca di Trento non serve solo ai trentini,
- i bibliotecari già catalogano i documenti,
- il catalogo non è sempre reperibile facilmente (specialmente quello delle biblioteche trentine che va sotto il nome di Osee Genius e, se non lo sai, cippalippa),
- c’è nel luogo fisico un progetto di digitalizzazione delle opere antiche.
- Alla luce di tutto questo, perché non sfruttare tutto quello che già c’è e integrare le informazioni anche su Wikipedia e i suoi progetti paralleli, per cui da lì si arriva alle risorse e al catalogo e viceversa?
4. L’approccio “aperto” non è una questione ideologica
Nel suo blog Eusebia si descrive così:
Sono Eusebia Parrotto, lavoro in una biblioteca pubblica, mi interesso di quello che succede intorno alle biblioteche e scrivo qui le mie riflessioni.
Come bibliotecaria e come persona, mi impegno per la conoscenza libera e per questo contribuisco ai progetti Wikimedia, in particolare alla biblioteca digitale libera Wikisource e a Wikipedia.
Adottare l’openness come filosofia anche nel suo lavoro, però, non è una questione ideologica. Il direttore della biblioteca e il comune di sicuro non sono wikipediani, ma i vantaggi di questo tipo di approccio – che consente, tra le altre cose, un continuo scambio di competenze e conoscenze tra biblioteca e resto del mondo – porta troppi benefici per poter essere ignorato. Lavori nel pubblico e vuoi muoverti in questa direzione? Non ti puoi permettere di fare dell’openness un discorso ideologico di nessun tipo, come dimostrano i partecipanti di lingua spagnola dell’ultima International Open Data Conference:
I partecipanti hanno descritto come, nei loro paesi, il discorso sull’openness sia venuto dall’alto e guidato da alcuni partiti politici. In molti casi, un partito politico ha formato un Governo ed etichettato il proprio operato e il proprio modo di lavorare come ‘aperto’. Questo ha causato un percezione partitica dei loro sforzi e, quindi, un rischio maggiore di tornare indietro in caso di un Governo del partito di opposizione. Questo significava anche che i dipendenti pubblici, specie se in posizioni medio-basse, non vedevano i possibili risultati dell’openness nelle loro attività come parte importante delle proprie attività quotidiane, ma come lavoro extra e motivato dalla politica, da infilare nelle loro già piene agende.
Il che mi porta direttamente a…
5. Abbandona il bisogno di controllo (ma continua a controllare gli Alert)
L’esempio su Cesare Battisti e la mappa di Napo è perfetto per mostrare che le persone sono piuttosto creative. Se nel mansionario di alcune persone della biblioteca c’è (anche) doversi occupare di openness, sicuramente non c’è scritto da nessuna parte che debbano intercettare tutti gli usi che vengono fatti delle loro risorse. Spostando l’attenzione su oggetti più comuni in biblioteca – i libri – riesci a immaginare di prendere a prestito un volume e con esso un dipendente che controlli se lo leggi in bagno, se ne parli ad un gruppo di lettura, se finisci tutte le pagine, se lo studi o se ti segni da qualche parte le citazioni che ti piacciono di più? Ridicolo!
Il controllo delle bibliotecarie (e dei bibliotecari) si esaurisce nel momento in cui il libro è legalmente passato nelle tue mani. Nessuno si sogna di chiederti che cosa ne hai fatto quando lo restituirai o di mandarti mille mail per capire cosa stai facendo mentre stai esercitando il tuo diritto di accesso alla risorsa.
Sempre restando sui volumi fisici, se fai bene il tuo lavoro di biblioteca, può essere che chi di mestiere scrive ti citi (di solito nei ringraziamenti), un Alert fisico. Quelle sono le cose su cui puoi (e devi) concentrare il tuo controllo. Il metro di misurazione della bontà del tuo lavoro dovrebbe essere un costo per te, non per chi decide di usare i tuoi servizi. Tornando alla metafora dei libri fisici, se una scrittrice (o uno scrittore) si prende la briga di esplicitare che il personale della biblioteca è estremamente gentile è compito tuo leggere (e sfruttare) questa cosa, non è compito di chi scrive portarti una copia del volume con la frase sottolineata. Nell’esperienza di cui parla Eusebia, qualcuno all’interno della biblioteca ha il compito (o il piacere) di controllare gli Alert, nessuno deve dichiarare prima a cosa gli servono le mappe di Battisti.
6. Dimenticati della competenza amministrativa
Nel video, ci viene raccontato di uno studioso olandese interessato alle mappe che si trovano in Trentino, di pagine di Wikipedia in dodici lingue che usano le immagini digitalizzate da una piccola biblioteca e di una tipografia del Rhode Island che suddette mappe le sfrutta commercialmente.
Con questo non sto dicendo di bruciare i confini e lavorare per chiunque dovunque si trovi (anche se alcuni esempi di amministrazioni con un’ottica più ampia di altre ci sono).
Però.
In un territorio piccolo (ed estremamente concentrato su se stesso) come il Trentino (che con l’Alto-Adige fa poco più di un milione di abitanti) lavorare perché l’interesse pubblico non sia confinato tra le Alpi e il Lago di Garda immagino sia piuttosto difficile. La chiave di volta sta tutta lì: l’interesse pubblico, della collettività di individui che rappresentano potenziali stakeholder – tanto amati da convegni e schede di valutazione europee e non. Se, per esempio, sei un’Amministrazione che pubblica Open Data, come fai a dire che l’interesse pubblico di quei dati è legato ai tuoi confini amministrativi? Esempio concreto (al di là della biblioteca): se gli orari del trasporto pubblico comunale sono rilasciati con una licenza aperta, li useranno solo i cittadini? E i turisti? E le app che aiutano ad organizzare i viaggi – e magari hanno sede in Olanda o negli Stati Uniti? E gli accademici che magari stanno a mille chilometri dal tuo comune?
7. Coinvolgi risorse nuove. Coinvolgi risorse vecchie.
Non parlo di età anagrafica, ovviamente (anche se, a volte, quella conta).
A quanto ci dice la protagonista del video che stiamo analizzando, nella biblioteca comunale lavora per una anno – da almeno tre anni – una persona che fa il servizio civile. Il che implica almeno che sia il compito di qualcuno che in biblioteca lavora in pianta stabile di scrivere un progetto per farsi assegnare i fondi. Sospetto che la cosa sia un po’ più complessa di così e chi fa servizio civile sia seguito da un tot. di bibliotecarie e archiviste, ma lasciamo perdere per amore di brevità.
L’esempio mi pare abbastanza chiaro: se non c’è un certo grado di impegno da entrambe le parti, difficilmente l’Amministrazione in questione potrà diventare davvero abilitante (spostandosi dal servizio civile, per quanto riguarda i CoderDojo e lo sportello Linux l’impegno della biblioteca è di fornire gli spazi fisici, nonché di fare la comunicazione sia in loco che online tramite il sito, la newsletter e i social, più sicuramente altre cose che non so o non mi vengono in mente).
8. Sfrutta i prototipi, ma progetta di investire tempo e denaro
Per essere davvero abilitatori e non fare solo iniziative di facciata bisogna tenere in considerazione la sostenibilità dei progetti. Sebbene il servizio civile non sia tecnicamente lavoro, è comunque un’esperienza professionalizzante SE il progetto è parte di una visione strategica della propria Amministrazione (“assumere” personale attraverso il servizio civile per pagarlo meno è una maledetta carognata, così come avere volontari del servizio civile che fanno fotocopie dalla mattina alla sera).
Sempre in biblioteca, è chiaro che i macchinari per la digitalizzazione sono del Comune, il progetto è scritto dalla biblioteca – e materialmente eseguito da chi fa il servizio civile, con l’accompagnamento del personale – in un’ottica di lungo termine (tanto che di progetti ne sono stati fatti almeno tre). Qualcuno avrà dovuto formarsi sull’argomento e rendersi disponibile a fare da mentore. Insomma, fatti due conti…
Lo dirò fino a non avere più fiato: il civic hacking non è un modo per far lavorare la gente gratis (nemmeno quelli che vogliono farlo perché vogliono dare una mano alle Amministrazioni a diventare piattaforme). In tempi di bilanci magri, se lavori nella Pubblica Amministrazione probabilmente è difficile far saltare fuori dei liquidi, ma se non c’è il commitment del posto in cui lavori, come può essere una priorità abilitare i cittadini?
9. Lavora in ottica di remix
Parlare di “materiale grezzo” che poi “verrà lavorato altrove”, nonché di “officina digitale” esplicita molto chiaramente che Eusebia sta ragionando in ottica di remix, anche se forse non ne è consapevole.
Uno degli aspetti più interessanti (o significativi) del fare civic hacking è la possibilità di risistemare i “pezzi” per trovare soluzioni nuove. Come nella musica, quando un dj crea una canzone nuova campionando cose che già esistono (non mi infilerò nella diatriba legale. Se proprio ci tieni, Lessig ha scritto un libro titolato Remix in cui ne parla in lungo e in largo). Esattamente come gli Open Data – che dovrebbero essere considerati un’infrastruttura, l’operato può essere più o meno simile alle note musicali: tutti sappiamo che sono DO-RE-MI-FA-SOL-LA-SI, alcuni sanno a cosa corrispondono, altri sono in grado di replicarle, altri ancora sono in grado di crearci una composizione, altri ancora quella composizione sono in grado di smontarla e creare qualcosa di nuovo.
Si tratta di un movimento circolare per le Amministrazioni: devi sapere chi sei e quali materiali puoi fornire, devi abilitare chiunque a diventare dj, ma se rincorri tutte le sirene perderai di vista chi sei e nessuno diventerà dj. Il risultato non sarà l’immobilità, ma la perdita di contributi importanti (ti ricordi cosa diceva Eusebia sulla consulenza altamente specializzata sulle mappe della biblioteca?).
Aspetta! Devo tirare le fila!
Se hai letto fin qui, forse ti ritrovi con più confusione che altro, quindi fammela mettere giù semplice.
L’amministrazione deve rendere abili i cittadini, in tutti i sensi.
Tu che leggi, sii l’Eusebia Parrotto della situazione: cambia le dinamiche, sperimenta, muovi un sassolino che forse permetterà ad una porta di aprirsi. Insomma, sii la (o il) civic hacker di cui la tua Amministrazione ha bisogno (specie se hai una posizione privilegiata: l’interno).
E, per buona misura, il quasi decalogo:
- Sapere qual è il proprio ruolo
- Essere aperti alla (vera) partecipazione
- Stai davvero lavorando al meglio delle tue possibilità?
- L’approccio “aperto” non è una questione ideologica
- Abbandona il bisogno di controllo (ma continua a controllare gli Alert)
- Dimenticati della competenza amministrativa
- Coinvolgi risorse nuove. Coinvolgi risorse vecchie.
- Sfrutta i prototipi, ma progetta di investire tempo e denaro
- Lavora in ottica di remix
L’immagine di copertina è “Workshop” di Bill Smith con licenza CC BY 2.0.
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