Pubblicato originariamente su Il Colophon il 9 giugno 2018.
Una riflessione su cosa significa scrivere oggi, a partire dalla produzione di Arundhati Roy di Erika Marconato
Scena: interno. Due poltrone marroni, una di fronte all’altra.
Intervistatore: “Come si sente all’uscita del suo nuovo romanzo? Non scrive da vent’anni…”
La frase resta in sospeso, mentre negli occhi dell’autrice passa un guizzo. Le si forma un sorriso di cortesia agli angoli delle labbra.
Roy: “Non capisco il perché di quest’affermazione. Negli ultimi due decenni ho scritto saggi, articoli e interviste sui temi che sentivo più urgenti”.
Sipario. Fine.
Perché nel 2017 è stato pubblicato dai tipi di Guanda Il ministero della suprema felicità, il secondo romanzo di Arundhati Roy. In Italia, come nel resto del mondo, questa è stata l’uscita letteraria dell’anno: tutti aspettavano da più di vent’anni che Roy decidesse di dare alle stampe un suo romanzo. E molti hanno reagito come il suddetto intervistatore: perché ci ha fatto aspettare tanto? Il suo lavoro non è fare la scrittrice? Perché non ci ha dato prima un altro romanzo da leggere?